Avevo scelto un tavolo nei pressi della grande vetrina distante dal flusso dei passanti. Il trambusto della colazione noto ad ogni italiano. L'espresso come vodka fatto fuori al liminare del bancone.
Un'anziana cameriera col grembiale un po' sudicio aveva preso nota del tè nero. Pareva che ci spicciasse i sigari sui lembi. In un accento romeno mi disse che la sala fumatori era chiusa per lavori di restauro.
Mi rigiravo la scatola di fiammiferi tra le mani. Pensavo che a non star attenti due azioni inframezzate da una pausa avrebbero condotto allo stesso esito. Un romanziere, per esempio, se avesse scritto due storie a distanza di un anno senza abbozzare alcuno studio minore nel mentre avrebbe finito per indurre i personaggi alle stesse movenze. Ci sarebbe stato sempre quello che a ben guardare è uno svitato, quello fiero di aver scampato la leva con l'attestato di malcaduco, ch'armeggia con un un borsellino o otturatore di compatta nell'incapacità di pescare le parole: una ragazza inconsapevole di essere ragazza avrebbe sciolto la lunga chioma untuosa e detto la società al rogo.
Anche io sbirciavo tra i fiammiferi alla stessa stregua. Quando ero solo un adolescente uno dopo l'altro mi caricavo le nari di zolfo e cercavo così di comprendere fino a che punto la fiamma sarebbe arsa.
In quel momento entrò il giovane B.. A mani libere, con una giacca leggera e ben stirata.
Mi individuò subito e venne a sedermisi accanto. Nonostante la sua prontezza e discreta gestione dello spazio — una lamina trasparente pareva stornare ogni traiettoria molecolare esterna dal suo moto &emdash;, c'era dell'inquieto a cerchiare le palpebre. In un paese come il nostro, non c'è neppur bisogno d'invocare il malcaduco, pensai con rammarico.
«Legge il giornale?» esordì B., scorgendo una fila di gazzette dall'altra parte del tavolo.
Sorrisi e lo invitai ad ordinare facendo segno alla roména.
Da qui seguì un breve scambio di circostanza, anche oggi un gruppo di giovani bendati aveva minacciato di «diffondere il verbo», come veniva chiamato il composto gelatinoso e scarsamente opaco che questi aspiranti-reietti erano soliti, non senza un preavviso e postfazione, a sparpagliare per le strade e piazze del centro. L'attacco veniva dunque dispiegato in tre momenti differenti, e nessuno stadio precedente sembrava lasciare adito alla possibilità di abdicare al successivo o di interrompere l'aspetto ciclico del richiamo. Il gruppo, mai ancora identificato, iniziava con un annuncio in chiare lettere, le solite manfrine sulla rivoluzione e decostruzione del principio di inerzia. A distanza di una settimana circa passavano all'azione. Diffondevano il verbo, questa gelatina translucida che poneva la città col culo in terra. Un occhio attento avrebbe visto non trattarsi di nevischio sul marciapiede, ma nel trambusto cittadino e nella totale imprevedità del luogo in cui il «verbo» sarebbe stato sparpagliato, fiumi di signore eleganti e sodi signori si ritrovavano col coccige di lungo nei pressi di piscio di cane.
Si trattava del «tentativo di riconnettere il cuore dell'esistenza umana al fulcro della meccanica newtoniana», come si trovò delucidato in uno dei volantini. L'applicazione del Logos avveniva per via stocastica, una Via Crucis a conduzione saltatoria. Diafano e acquoso com'era, il composto melmoso era difficile da stanare e finì per obbligare gente rispettabilissima a non tentar piede fuori di casa, in seguito ad ogni nuova dichiarazione, o per lo meno a non uscire se sprovvisti di automobile. Il giorno immediatamente successivo ai disguidi veniva trovata poi una postilla, generalmente affissa alla porta del grande campanile. Di poco più che qualche riga, la nota era scritta in un linguaggio di segni incomprensibili. Nessuno era riuscito a decifrare quell'alfabeto, di conseguenza ogni mese si ripresentava l'identico scenario.
«Ma sia lodato una buona volta, le telecamere che ce le hanno a fare» feci io col gesto di allontanare le gazzette dal mio tè nero e dal whiskey del signor B..
«È buffo, sa» mi rispose B., «Ma poliziotti trascorrono nottate intere alle prese con quei dannati filmati. Naturalmente si concentrano sulle zone nelle cui prossimità sono state rinvenute tracce di quel... come lo chiamano, quella dannata merda chimica. Ma niente. Vedono le scenate della gente che casca al mattino, ma niente di chi la notte ha commesso il fatto».
B. era in gamba, aveva soltanto preso il vizio di bere al mattino.
«Troppo mistico, ragazzo mio. Come è possibile che si non vedano i ragazzi nelle riprese? Non è che non sono dei semplici liceali come dicono? Ci vorranno certe cognizioni di chimica sperimentale che non può possedere un ragazzino pustoloso da scuola superiore, per realizzare quell'obbrobio».
«In effetti» fece assorto B., «Le telecamere non so, è come se subissero un'interferenza poco prima dell'atto. Così ho sentito dire da una mia collega.»
Aveva gli occhi bassi, ma non badava a quel che diceva. Finalmente entrò in argomento.
«L'ho vista di nuovo» qualche decibel più basso. Lanciò un'occhiata furtiva alla vetrina alla sua destra. Rovesciò il fondo del bicchiere. «Non capisco cosa vuole.»
Avevo conosciuto il giovane B. prima che gli si borchiassero gli occhi. Era un giovane medico di ambulatorio, laureato in anticipo di una sessione e mezza e di bell'aspetto biondo. Il noto paradigma dell'affabulato, per cui le infermiere si accorcerebbero il camicie. Una giovane recluta che i superiori prendono sin da subito ad invitare ai pranzi malgrado non possieda una sola idea originale, o probabilmente pure in virtù di questo. Un uomo capace di condurre conversazioni d'ogni sorta, con ardore simile a quello di chi si stia a grattarsi un gomito. Senza complicazioni, senza carcinomi di sintassi impigliati nella glottide, senza alcun orrore verso un significante che non sussume. La gente gli si accostava con un'insolita febbre negli occhi avida del suo consulto, e il signor B. con mansuetudine rispondeva e proseguiva col dire qualche cosa di generico, del tutto ordinario, come versasse un obolo, ma ogni volta accolto con grande spirito evangelico. Quando conobbi il signor B. non beveva, né di mattina né in giorni non festivi. Vestiva gli stessi abiti, ma con più spigliatezza, i capelli tagliati meglio.
Il viso gli era fresco. Di certo io l'avevo già notato tempo prima, ma non ricordavo con esattezza. Non sono tipo da frequentare ambulatorii io, neppure con la sciatica. Avevo preso l'abitudine a far lunghe passeggiate nel parco del mio quartiere di periferia. A fissare le anitre strozzarsi con le molliche, le solite attività da pensionati. Un giorno mi si para davanti un bel giovane nei pressi del cancello con l'aria di averci rimesso la testa. Ha perso tutto, portafogli e telefono cellulare. Ha il colletto della camicia slabbrato. Mi chiede banalmente di imprestargli il telefono per una chiamata. Non può aspettare. «Sono un medico» dice. Penso a Rurik e i variaghi a Novgorod. Infine non ho nulla da perdere. «Ho un telefono che può fare solo telefonare» sorrido. Quel giovane medico che poi scopro essere il signor B. non mi risponde né sorride. Digita qualche numero come ‘briaco e dice «È finita, non mi cercare più e non cercare di capire la ragione. Ti giuro che non c'è» e riattacca. Mi porge il telefono con un cenno. Penso che le cabine telefoniche non le hanno mica debellate e sarebbe stato semplice raggiungerle da lì a pochi passi, ma chiedo invece, cosa le è successo. Per la prima volta mi guarda in volto e capisco che il giovane B. mi sarà amico. E si fa chiaro che sarà tale a lungo finché per lo meno ciò che quel giorno ebbe inizio come la sua piccola e inesplicabile tragedia personale non sarà volto al termine.
Questo mattino in questo bar italiano con la cameriera spiccia-sigari-sul-grembiale che con tatto evitava di passarci accanto aspettavo che il signor B. raccontasse i nuovi risvolti della faccenda.
«Prima un altro whiskey, l'ultimo» fece un segno al grembiale.
L'agitazione rende gli uomini stereotipi bipedi. Mentre i pedanti insistono sulle neolingue e la metaforica assuefazione al linguaggio dei media, in qualche laborattorio si perfezionano tecniche del controllo ipotalamico: allora sì le barriere linguistiche verranno meno, così come tutti i suoi rifugi.
Il signor B. fece del bicchiere un solo sorso. Lo vuotò, scriverebbero nelle traduzioni di romanzi russi, e prese a raccontare come quel primo giorno nel parco, con uno sguardo un po' sbilenco.
La zingara grassa con le treccine. La sua storia ruotava intorno a questo spiedo.
«Ha uno sguardo. Ti fa volere di, non so, non essere nato mai, ti costringe con quella sua dannata fissità degli occhi a pensare a come sarebbe se io non fossi... se io non fossi stato a contatto con quello che ero, se io mi vedessi dall'esterno e io» qui abbassò il tono della voce che aveva iniziato a scaldare, «io provassi disgusto di me. Perché io…»
«Signor B., ei, mi senta» tentai di placarlo, «Dovrebbe smettere di bere innanzitutto».
Nessuna infermiera si sarebbe slacciata un bottone per quest'uomo adesso. Non che egli se ne sarebbe mica potuto accorgere, del resto. Quel giorno nel parco quando mi chiese di telefonare, prendeva congedo dalla sua storica-fidanzata, ed erano ben tre mesi che non aveva altro pensiero, altro pensiero che quello della zingara in sovrappeso. Della zingara che gli si avvicina e dice cose, e che «quando non dice, è peggio». Due occhi scurissimi e cerchiati di nero da gimnoto elettrico capace di affossare cavalli a sei metri di distanza sbrigliati nel salmastro. Cornea di minuscole elettroplacche, .15 volt cadauna.
Al signor B. toccava giorno di ferie, come può accadere nei canovacci di romanzi da autostrada, quel giorno in cui ci saremmo trovati nel parco. Cercava un fioraio per le azalee all'amante di turno, quella che il turno gliel'aveva fatto saltar, uno di quei chioschi che nella Russia d'oggidì son aperti kruglosutochno — per spacciarci certi tipi di polline. Il candore del Signor B. si faceva notare. Procedeva dinoccolato e ben compattato, com'era suo marchio e sarebbe stato ricordo d'annales di lì a poco. Per lui le amanti, le azalee, le corse in Mercedes noleggiate, l'oliva nel cocktail &emdash; solo due volte assaggiata: la seconda per l'effetto premeditato dello sputarla oltre un'inferriata, gesto che avrebbe conquistato d'acchito, secondo previsione, la visual artist serba con cui si intratteneva: tutto questo per il Signor B. non rappresentava che un protocollo, le moine del giuoco. Ci prendeva ben poco gusto, se non fosse che in quello di imbroccare lo svolgimento dei fatti, le dinamiche attraverso cui la psiche umana si srotola. E al contempo non si trattava chiaramente del piglio dommatico del behaviourista che per ogni passo fuor dallo istudio subito appronta quattro pubblicationes per le academie punto edu. Il Signor B. giocava d'azzardo e mai manifestava le sue tratte, come se restassero impigliate in qualche zona cerebrale antecedente al processamento verbale. C'era una lega di barretti, un mezzo striptease club (di quelli per la societas bene, ammessa per reddito e, come diviene uso ovunque, ID da registrare), l'ambulatorio, la scuola pei corsi serali (da cui scaturiva un'etica tutta sua, quella di schivare la carne degli studenti, ed -esse, ma di soggiogarli in un certo qual modo alla diligenza), le amiche della fidanzat-astorica. Tuttavia, iniziato come espediente per turarsi le 'recchie dalla discografia intiera dei Bee Gees in un club malaticcio, quel su-e-giù al di là dei separè di canapa Ming finì per acquisire l'aura del rituale. Qualcosa che solo gli animali da jogging del mattino potrebbero comprendere. A vederlo, ma io mai lo vidi prima di quell'anomalo giorno del parco, neppure lo si sarebbe dato come nymphomane. Era uno che agiva senza desideri, erano i desideri altrui a pararglisi sulla strada. Lui sapeva di quanti metri lontano lanciare con lo sputo l'oliva del martini, e la serba atea prendeva a sganasciarsi puntuale.
Nel quartiere dove abitavo e passeggiavo io, dalle parti del maledetto parco, insomma, il Signor B. andava cercando le azalee. Il chiosco che ricordava all'incrocio era fuori servizio per manutenzione (ricostruire una vicenda è speloncare nei clichè degli altri: eppure il tono del nostro racconto parrebbe così fresco e concitato — tre semi-donne appolaiate sul trespolo, una successione di immagini che si ripete). Nel vedere in quel momento una zingara non proprio lorda, con alcune trecce ornate di fiori, il Signor B. sorrise e le si rivolse. Con quella sua mano a rassettarsi il cuoio biondo, quel tipico gesto di chi non suda per l'infosphera, di colui a cui le soluzioni si presentano sempre al punto giusto. Il Signor B. esordì indicando il chiosco sbarrato, dicendo cerco-azalee come un bambino. Eppure quel che avrebbe avuto ben ragione di ritenere come l'aver avvistato una zingara dall'aspetto garbato che di sicuro sa in che campi procurarsi bocciouli per far colpo, in realtà trattavasi di mero obman zreniya: un miraggio, una luce che si rifrange. Il Signor B. non aveva avvisato un bel niente.
La zingara produsse poche parole, tutte slegate, forzando forse un po' un accento bislacco. Disse qualcosa come «Fiori non lontano». Accennarono due passi sincroni, mentre il Signor B. si volgeva al riso, felice. «No azalee no» si fermò subito in una sezione del marciapiede più appartata, «Niente oggi». Il Signor B. era pronto a replicare che al diavolo le azalee, un altro arbusto di stagione avrebbe fatto al caso, ma si interruppe, senza capire perché. La zingara gli chiese di seguirlo in una zona del parco lì vicino non molto bazzicata. La chiamò «solco» con due c, «che nessuno conosce». Il Signor B. suppose che stesse per condurlo là dove racimolare almeno un pugno di margheritine. Di quelle non proprio calpestate, la seguì fattosi pensoso. La zingara non emanava cattivo odore per lo meno, ma era piuttosto sovrappeso e nel camminare con sandali dalla suola sottilissima ogni tanto doveva sollevare le vesti lunghe. Era difficile pensare che i lembi le si potessero impigliare nei ciottoli o ramoscelli del vialetto, tuttavia dava una certa impressione che volesse evitare quella circostanza, tanto incresciosa quanto improbabile. Parlò nel tragitto ma il Signor B., pover'anima, non riusciva ad afferrare ogni parola. Era come se il vento e le urla dei bambini alle giostrine che si erano di molto lasciati alle spalle emettessero onde sonore con la stessa intensità dei discorsi frammentati della zingara. Erano intanto giunti al solcco. «Qui no azalee, ma questo chiamato Aza» si abbassò in una cava ai piedi di un eucalipto e ci trasse una bambolina di legno. Soggiunse che da lì in poi il Signor B. aveva in sorte di perdere ogni legame con le cose d'ogni giorno. «Ma questa è follia» profferì parola il Signor B. dopo tutto quel percorso fatto in silenzio. «La machina, i ssoldi» fece il segno della cornetta telefonica. «O liberi tu oppure loro scomparire. La ragazza anche», l'elettroforo può giungere anche a 570V, lo sguardo era serissimo: «Noi non nemici». Il Signor B. fu colto da un inevitabile senso di repulsione, riacquisì un po' di padronanza e si lisciò il frac. «Ora basta scherzi» tirò su col naso. Nel guardarsi intorno notò che non passava realmente anima viva da quelle parti, pensò come gli era saltato in mente di immischiarsi in quel delirio, che di solito è lui a condurre i giuochi, non viceversa. I suoi occhi incrociarono dei fiori a qualche passo da lì in quel luogo vergine. La zingara gli tendeva la bambolina. «Aza meglio di fiori, tu vedi poi». Il Signor B. indietreggiò e fece per andarsene. «Uccello vede pure di sopra parole». Quasi di corsa, senza scomporsi però oltre misura, il Signor B. abbandonò quel tugurio di lardo, e subito cercò di perdere di vista e la zingara e tutte le sue stronzate da mentecatta. Aveva un po' il fiato corto, ma raggiunta la parte più trafficata del parco, nei pressi delle cabine telefoniche in armatura blu e giostrine, si diede una calmata. Si accostò al cristiano dei giornali e ne acquistò una copia, una valeva l'altra. Trasse fuori un gettone che aveva nella tasta esterna del frac. Si diresse verso una panchina mentre famiglioule schiamazzanti occupavano l'ambiente, conferendogli in un certo impensabile modo un tocco soffice, da pranzo di Natale. Tutti amici, tutti intorno ad altri, chiunque che nel rivolgersi all'altro non pensa che ad estendere il suo verso, un urlo più vibrato: non pensa nella danza, 'ché è sufficiente il senso di coesione. «L'ontologia dei batterii» direbbe un accademico. Il Signor B. dispiegò il suo giornale per leggerci qualche parola grassettata. «DESOLATION WROUGHT» lesse sul fianco sinistro, terza pagina, un po' defilato. «Ma che razza di tendenza, da quando il titolo in gonnella ha d'essere anglofòno» pensava tra sé sentendosi spigliato nelle sue analisi sociologiche. In quel momento, come mi raccontò meglio la seconda volta che ci siam visti per parlare, il Signor B. avvertì come una scossa che lo lasciò smarrito per qualche microsecondo. Guardò meglio — un piccione di merda gli aveva defecato sulla pagina del giornale. Si guardò d'acchito tutt'intorno per valutare se qualcuno per caso lo avesse sorpreso. Poi si tastò le vesti, i capelli. Di grazia, quell'uccello maledetto non l'aveva insudiciato, e ci mancava poco. Senza esitarvi, si alzò e cestinò la gazzetta nel primo cassone alla portata. Il panico gli giunse solo una ventina di minuti dopo, quando si rese conto di esser sprovvisto sia di telefono cellulare sia di portafogli. Tasche vuote e senza fori. Il resto poi lo si conosce.
«Tutto ciò è una pila di minchiate rimasticate miliardi di volte da cocchi di editori senza dignità» avrei voluto dirgli sin da subito, ma tacqui, com'è rispetto del prossimo, e aspettai di ascoltare la sua storia nel dettaglio. Dunque dissi: «Ma non pensa, Signor B., di esser stato truffato? Voglio dire, questa gente si sa. Fa discorsi primitivi, come conviene alle loro tradizioni. Ma mica è sciocca, niente affatto. L'avrà stordita nel tragitto con qualche artifizio, motivo per cui lei appunto percepiva voci distanti come se le fossero al fianco, in contravvenzione con ogni legge, lei sa, no?, del quadrato della distanza. Infine, o da sola, o con qualche complice a lei rimasto ignoto nel suo ottundimento, l'avrà fatta franca. Ecco, portafogli, tabacchiera, telefonnino. E che ci vuole, per gente come quella?» le letture di Simenon e dei classici gialli inglesi non avevan fornicato invano nel mio encefalo.
Eppure il Signor B. restava intontito, diceva che se ne sarebbe accorto se avesse ricevuto un colpo «fisico». Aveva sventato una decina di novelli pickpocket nel suo ambulatorio, e gli effetti dei più noti narcotici non gli erano mica un mistero. Per amore del suo «giuoco» gli era toccato di provare un po' di tutto, sempre con distacco naturalmente.
Nel caffè italiano-doc presso la vetrina in cui sedevamo, consumavamo il nostro terzo incontro, ma mi pareva ci conoscessimo da anni. A chiunque sarebbe sembrato per lo meno arduo riconnettere questo miserabile col vizio del whiskey in pieno sole quasi stempiato per nevrosi precoce al giovane medico mangia-passera che pareva trovare ogni gioia sul cammino per il solo fatto di trovarcisi, riconnettere queste due figure — altro clichè questa volta cinematografico, della bionda e la mora che son la istessa persona &emdash; se non in fase per lo meno in successione temporale. Non per me, però. Io avevo l'altro Signor B. quasi davanti, scisso sì ma netto, solo sovrapposto da un'altra opacità. Eppure che razza di latrina umana a vedersi, niente scherzi.
«Sa che luoghi frequenta quella donna?» chiesi infine. Di dettagli non era avido mica. Eravamo a discutere da un po' al tavolo. Nell'arco di un mese il Signor B. aveva incontrato la zingara all'incirca cinque volte, ma mai un dialogo compiuto. Per lo più occhiate, pesce aerobico adipocitico.
«Non sembra possibile rintracciarla, sapere dove abita» trasse un sospiro. «Sa se si accompagna a... avrà una sorta di tribù, no? Come le chiamano lì», incalzai.
«No» fece fermo B., «È sempre sola. Ho pensato di rivolgermi a qualcuno per seguirla, ma» sospirò più forte e guardò in direzione della cameriera, come indeciso se proseguire con le ordinazioni. «Non so se mi pare una buona idea. L'unica persona con cui l'ho vista una volta e pare sia l'unica ad essere nelle sue grazie, è una ragazza di qui. Una tredicenne ritardata, così dicono. Due colleghe con cui pure mi confido sono informatissime, una vive nel palazzo accanto. Non so più di chi fidarmi del resto».
«E che si sa su questa tredicenne?» mi sembrò opportuno indagare. Ma intanto il Signor B. stava già sollevando l'indice richiamando l'attenzione della cameriera romena dal grembiale butterato, quando qualcosa fendette l'aria di netto, tra il bancone e il nostro tavolo.
Si spalancò la porta del caffè. Entrarono due bambinetti di manco sette anni.
«Ce l'hanno fatta! Hanno letto un messaggio!» gridò il più sfacciato.
Il barman restò col panno lustro entro un boccale a mezz'aria.
«L'ultimo messaggio della scorsa settimana» spiegò l'altro, «Era un messaggio crittato. Ora abbiamo la chiave». «Sì» abbaiò il primo di rimando, «Decrittografato! Ce l'abbiamo fatta».
Un gruppo di signore si fece intorno ai due bambini con il solito zelo delle casalinghe da bar della mattina, quelle a cui alcuni analysti della rete, invisi ancora a molti, prescriverebbero d'urgenza dosi massicce di cocotte, a confronto della quale due denti in più son poca cosa.
«Questa storia dei liceali che diffondono verbi, il vangelo di Ioanni o vattelappesca. Mai sembra finire» scosse la testa il mio commensale. Osservai tutta la scena, il Signor B. coi giornali sparpagliati sul legno, il grambiale lordo che si apprestava da questa parte, le signore in astinenza dalla coca mai ancora sniffata, la deviazione dei bambini, quel boccale orizzontale imbottito di stoffa ciano, le figure che trasformano gli ambienti: suppellettili di carne tra monologhi già scritturati, e performati a rutti.
Agguantai la scatola di fiammiferi e uscii in strada a fumare.